Fucine Collettive: Come sei arrivata alla fotografia? Perché hai scelto la food photography?
Ilva Beretta: Mi è sempre piaciuto fare fotografie, ma è stato solo quando ho aperto un blog di cucina che ho scoperto la food photography ed è subito diventata la mia passione. Dopo qualche anno in cui curavo il mio blog, un editore canadese mi ha contattato commissionandomi un lavoro importante e io, che non so resistere ad una bella sfida, ho accettato. Quel lavoro ha confermato che volevo trasformare la fotografia nella mia professione, così ho iniziato a farmi pubblicità e a far conoscere il mio lavoro su nuovi canali e dopo non molto ho avuto altre proposte di lavoro.
F.C.: Da cosa sei ispirata, da dove prendi le idee per un photoshoot?
I.B.: Dipende dal tipo di fotografia che voglio realizzare. Per la food photography più tradizionale, posso essere ispirata da un oggetto che utilizzo come prop, da una verdura particolarmente bella e fotogenica, o da un’altra fotografia. Quando si tratta invece fotografia di fine art, di solito il mio punto di partenza è un’idea, un concetto al quale mi è capitato di pensare e che voglio sviluppare, ma talvolta può anche un’altra fotografia, una poesia, uno stato d’animo, o una luce particolare ad ispirarmi.
F.C.: Qual’è il tuo scatto preferito e perché? Qual’è la sua storia?
I.B.: Non ho uno scatto preferito, probabilmente perché tendo a guardare le mie foto notando sempre cosa avrei potuto fare meglio. Ho questa tendenza ad andare sempre oltre, per migliorarmi, e raramente mi soffermo a guardare indietro.
F.C.: Chi sono i fotografi a cui ti ispiri?
I.B.: André Kertész è probabilmente il mio fotografo preferito. Ha un occhio particolare per la composizione.
Olivia Parker è un’altra fotografa che ammiro molto, i suoi still life sono splendidi.
F.C.: Qual’è l’aspetto del tuo stile fotografico di cui sei più orgogliosa?
I.B.: Quando le persone mi dicono che riconoscono con una sola occhiata una mia foto quando la vedono, questo mi rende molto felice perché significa che ho sviluppato un mio stile personale. E credo anche di essere piuttosto brava a leggere la luce.
F.C.: Hai un progetto fotografico di cui vai più fiera?
I.B.: Sì, lo scorso anno ho realizzato
una serie di still life sul tema della tortura. Mi piacciono perché ritengo sia un argomento molto importante e sono contenta che le persone abbiano reagito positivamente e nel modo che mi speravo. A prima vista quelle foto sembrano semplici still life ma se si osserva più attentamente si può vedere anche la violenza. Il progetto è stato scelto per entrare a far parte dell’Addis Foto Fest, un festival biennale di fotografia che si tiene ad Addis Abeba.
F.C.: Hai un soggetto che preferisci fotografare più di altri? Perché?
I.B.: Preferisco fotografare le materie prime, gli ingredienti, più che le ricette concluse, gli impiattamenti, perché da un punto di vista compositivo lo trovo più stimolante.
F.C.: Da quando fotografare è diventata la tua carriera, è cambiato il tuo rapporto con il cibo?
I.B.: No, non molto. Li ritengo due mondi separati. Tendo a guardare il cibo come oggetto, piuttosto che come qualcosa che potrei mangiare.
F.C.: Qual’è l’aspetto più difficile del tuo lavoro?
I.B.: Trovare nuovi lavori. Adesso che tutti si ritengono fotografi, i clienti vogliono pagare il meno possibile, e spesso tendono a non tenere conto della qualità del risultato e della professionalità del mestiere di fotografo, finendo per affidare il lavoro a chi offre la tariffa più bassa.